Addio a Gianbattista “Dido” Judica Cordiglia

Uno dei due fratelli che captarono i segnali radio di Jurij Gagarin dallo spazio

I fratelli Judica Cordiglia (Dido è quello seduto) all'ascolto dello spazio con le loro apparecchiature radio artigianali

Lo chiamavano tutti, confidenzialmente, “Dido”.  E questo suo soprannome finì anche più volte su uno dei molti quotidiani internazionali, soprattutto in Spagna, che narravano delle vicende diventate anche avventurose, che lui, il cui vero nome era Giovanni Battista, e di cognome Judica Cordiglia, condivideva con il fratello Achille.

Dido Judica è deceduto ieri a Torino per le complicazioni di una polmonite. Da tempo era bloccato a casa per le sue condizioni di salute precarie, anche se comunque, nel suo studio sempre circondato da apparati radiofonici e televisivi, era sempre operativo.

Erano noti nel mondo (soprattutto in Russia), come “i due fratelli torinesi”, e in effetti loro non hanno mai corretto: si sono sempre sentiti torinesi di adozione e molto legati alla città che li aveva accolti da ragazzini, pur essendo lombardi, di Erba.  Vi arrivarono seguendo il papà, Giovanni Judica Cordiglia, un medico che per anni fu medico legale per la Sindone, noto anche per le sue apparizioni in Rai negli anni Cinquanta.

Dido era del 1939, e negli ultimi tempi era uno dei suo figli, Massimiliano  (l’altro, Giancarlo, è attore, drammaturgo e regista teatrale), a portare avanti la sua voce e le sue immagini. Avevano già lavorato assieme, per molti anni, come documentaristi, e ancora oggi, Max si occupa di nuove forme di multimedialità.

Ce l’hanno nel Dna. Gianbattista, con il fratello Achille (deceduto nel 2015 a Cirié), già negli anni Cinquanta aveva maturato una passione smisurata per le comunicazioni radiofoniche. Recuperarono persino oggetti di radiofonia, abbandonati del dopoguerra.  Achille si laureò in medicina e diverrà cardiologo, e Dido procederà nel suo lavoro di documentarista, e poi in seguito perito legale per i tribunali.

Ma c’è tutta la storia, quasi un romanzo giallo, delle intercettazioni delle prime missioni spaziali sovietiche, tra fine anni 50 e inizi 60. Divennero radioamatori e inizialmente collocarono una serie di antenne sulla terrazza di casa loro, in via Accademia Albertina.  Avevano studiato, essendo anche appassionati alla nuova era spaziale che iniziava, le traiettorie possibili dei primi satelliti russi. Che spesso seguivano una traccia che passava sul nordovest dell’Italia. 

E così, spesso venivano svegliati in piena notte da segnali che provenivano dallo spazio: Sputnik 1, poi Sputnik 2 con la cagnetta Laika e via via tutte le successive missioni fino ai primi voli con cosmonauti, compresa la voce di Jurij Gagarin. A Torino, e in Via Accademia Albertina, arrivavano giornalisti da tutta Italia.

Ma erano davvero i segnali di navicelle russe?: “E’ confermato da molti dati, compreso l’effetto Doppler, che ci mostra un oggetto che, dallo spazio, prima si avvicina e poi si allontana. Non può certo essere qualcosa che sta sulla Terra” – ci raccontava spesso Dido, che ci mostrò ogni dettaglio di quelle incredibili intercettazioni e segnali dallo spazio. Le voci di Gagarin addirittura fruttarono a Gianbattista e Achille il “disco d’oro” del 1962.

Il romanzo giallo era invece caratterizzato da voci e segnali di cosmonauti russi che sarebbero deceduti nello spazio, prima e dopo il volo di Gagarin. Che non sono mai state confermate, anche in piena glasnost, e negate con convinzione da molti analisti: “Non siamo né complottisti, né contro nessuno” – ci diceva Gianbattista – “Le registrazioni ci sono, le possono ascoltare tutti. Le abbiamo registrate sulle stesse onde di frequenza. Ognuno è libero di pensarla come vuole. Ma secondo noi erano cosmonauti nello spazio”.

Dopo il volo di Gagarin, la faccenda diventava grossa e seria. E tutti si chiedevano come era possibile che due giovincelli di Torino, per quanto geniali, potessero sapere in anticipo rispetto a tutti, compresi i centri governativi, di un volo spaziale. Specie se russo, quasi sempre avvolto da segretezza prima del lancio.

“Inizialmente ero completamente scettico – ci disse una volta Piero Forcella, giornalista RAI, laureato in fisica, l’uomo seduto accanto a Tito Stagno durante la notte dell’allunaggio – “Poi una volta, fine anni 80, mi recai a Torino, e Dido mi mostrò in dettaglio e mi spiegò come avevano intercettato le missioni. Ho subito cambiato idea, mi convinsi in pieno che tutto era reale, e poi siamo diventati molto amici”.

Dalla terrazza di Via Accademia i due fratelli, che da Mosca battezzarono “i pirati dello spazio”, si trasferirono così in collina, sopra San Vito, e inauguravano nel 1963 il “Centro Spaziale di Torre Bert”. Da lì, arrivarono voci e segnali dallo spazio di tutte le missioni, da quelle russe a quelle americane. Ed era tutto un via vai di giornalisti di radio, tv, quotidiani, ed esperti di spazio da tutta Italia e dall’estero. E su alcune frequenze trasmisero al mondo, e in diretta per la radio della svizzera italiana, il primo allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969.

Le apparecchiature della Torre Bert

“Poi mollammo” – ci disse Gianbattista – “la vera fase pionieristica, quella più intrigante era conclusa con la vittoria americana sulla Luna, che arrivava dopo i molti primati russi nello spazio. Non c’era più quel divertimento, ma il nostro materiale audio resta sempre, ed è sempre un vero tesoro di quella straordinaria corsa spaziale, in piena guerra fredda, degli anni 50 e 60”.

In seguito, metà anni Settanta, sempre da Torino iniziarono i test per la prima TV privata in Italia. Test che andarono bene: tra coloro che parteciparono a quei programmi di prova, Mike Bongiorno ed Enzo Tortora. Pionieri, a Torino, con “la passione smodata per radio e TV” – come spesso amavano sottolineare Achille e Gianbattista Judica Cordiglia.

I fratelli Judica Cordiglia (Dido è quello in piedi)

“Ora raggiungerà suo fratello Achille, sua moglie Laura mancata di recente” – dice Max Judica Cordiglia, uno dei due figli – “e magari da lassù riuscirà finalmente a saperne di più sul mistero della Sindone, della quale anche mio papà, come mio nonno, fu per molti anni uno dei maggiori studiosi in Italia”.

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