Un team guidato da Twin Cities dell’Università del Minnesota è riuscito a spingere il grande occhio del James Webb a oltre 13 miliardi di anni luce, per scoprire una galassia minuscola, ma in grado di generare nuove stelle a un tasso incredibilmente elevato per le sue dimensioni. Questa galassia è anche una delle più piccole mai scoperte a questa distanza.
Guardare lontano, nell’Universo, equivale a quadrare nel passato. E la luce di questa galassia è arrivata fino a noi partendo circa 500 milioni di anni dopo che era avvenuto il Big Bang.
Soltanto il Jwst poteva riuscire nell’impresa, dato che può raccogliere circa 10 volte più luce del telescopio spaziale Hubble ed è molto più sensibile a lunghezze d’onda più lunghe nello spettro infrarosso.
La galassia n questione ha un volume di circa un milionesimo di quello della Via Lattea, in balia di un universo molto giovane, ma la cosa incredibile è che sta formando un gran numero di stelle ogni anno.
Il trucco per osservare galassie così lontane è studiare i dettagli delle immagini che presentano fenomeni di lente gravitazionale, che si hanno quando la massa di una galassia o di un ammasso di galassie lungo la linea di vista, piega e ingrandisce la luce degli oggetti che stanno dietro.
Questa galassia non fa eccezioni. E si presenta 20 volte più luminosa di quanto sarebbe stata se un ammasso non avesse focalizzato la sua luce, grazie al lensing gravitazionale. E utilizzando tecniche spettroscopiche, i ricercatori sono riusciti a spacchettare la luce nelle sue varie componenti e misurare la reale distanza della galassia e le sue proprietà fisiche e chimiche.
Come si è re-ionizzato l’Universo?
Quando l’Universo era molto giovane, le galassie che lo popolavano erano molto diverse da quelle che vediamo ora nell’Universo vicino. Per questo è importante studiare le galassie lontane. Per aiutarci a saperne di più su come esse differiscono dalle galassie vicine e su come si siano formate quelle ancora più vecchie.
Studiare le galassie che erano presenti quando l’universo era molto più giovane può aiutare gli scienziati ad avvicinarsi a rispondere a un’enorme domanda in astronomia su come l’Universo si sia re-ionizzato.
Si tratta di quella fase in cui l’enorme massa di idrogeno neutro che permeava l’Universo primordiale, fin dai suoi primi milioni di anni di vita, improvvisamente svanì. Questo permise alla luce di squarciare il velo di nebbia che ammantava le origini dell’Universo e così possiamo di osservare i corpi celesti che in esso andavano prendendo forma.
La prima transizione di fase dell’idrogeno nell’Universo primordiale fu quella che viene definita come ricombinazione, che avvenne 379mila anni dopo il Big Bang. Questa fu la conseguenza del raffreddamento dell’Universo, e in questo periodo, il tasso di ricombinazione degli elettroni e dei protoni che contribuivano alla formazione dell’idrogeno neutro era maggiore del tasso di re-ionizzazione. L’Universo, prima della ricombinazione, era estremamente opaco, a causa della sua densità: i fotoni venivano assorbiti dalla materia che lo componeva e non riuscivano a uscire, un fenomeno chiamato scattering. Poi, l’Universo divenne sempre più trasparente, man mano che gli elettroni e i protoni si univano per formare atomi neutri di idrogeno. L’Universo pieno di idrogeno neutro sarebbe rimasto opaco rispetto alle lunghezze d’onda che venivano assorbite e trasparente a tutto il resto dello spettro. In quel tempo non c’era altra fonte di luce se non la radiazione cosmica di fondo.
La seconda transizione avvenne una volta che gli oggetti iniziarono a condensarsi in un Uuniverso primordiale con una carica tale da poter re-ionizzare l’idrogeno neutro. In quel momento, quando questi oggetti si formarono ed iniziarono a irradiare energia, l’Universo passò da essere neutro ad un mare di plasma ionizzato. Questo accadde tra 150 milioni e il miliardo di anni dopo il Big Bang. La materia ormai si era diffusa grazie l’espansione dell’Universo e le interazioni fra protoni ed elettroni erano molto meno frequenti rispetto ai tempi della ricombinazione elettrone-protone.
Oggi possiamo studiare questo fenomeno grazie allo studio degli spettri di quasar distanti. Questi oggetti rilasciano immense quantità di energia: sono infatti tra gli oggetti celesti più luminosi dell’Universo e sono osservabili anche a distanze molto elevate. Vi ricordo che distanza elevata astronomicamente parlando significa tempo remoto, poiché la luce ha impiegato moltissimo tempo per arrivare fino a noi. Qualsiasi interferenza di rilievo fra gli spettri di diversi quasar può essere causata dall’interazione delle loro emissioni con gli atomi sulla loro linea visiva.
Solitamente per indicare le epoche cosmologiche si usa il redshift (z), lo spostamento relativo in frequenza di un’onda elettromagnetica a causa dell’espansione dell’Universo. Il redshift cosmologico si spiega ipotizzando che le lunghezze d’onda varino allo stesso modo delle distanze a causa dell’espansione dell’Universo. Pensate di vedere un’onda come una corda ondulata. Più pieghe ha e minore è la sua lunghezza d’onda. Immaginate ora che questa corda sia legata a un punto all’inizio dei tempi. All’inizio questa corda è estremamente compressa e man mano che l’Universo si espande si tira aumentando la sua lunghezza d’onda. Nello spettro visibile, lunghezze d’onda più piccole implicano colori tendenti al blu, mentre lunghezze d’onda maggiori tendono verso il rosso.