Oggi sappiamo che gli organismi viventi producono una propria impronta cromatica, che, spesso, è visibile anche dallo spazio. Basti pensare alla biofluorescenza delle alghe, alle fioriture dei cianobatteri marini e al semplice verde della vegetazione.
Il verde, in particolare, è colore il più familiare sul nostro pianeta, quello più diffuso e che associamo maggiormente alla vita. Tuttavia, se fossimo su un pianeta simile alla Terra ma che orbita attorno a un’altra stella, il verde potrebbe non essere il colore più diffuso, in quanto un mondo alieno potrebbe avere un aspetto molto diverso ed essere potenzialmente coperto da batteri che utilizzano lunghezze d’onda differenti da quelle a cui sono abituati gli organismi terrestri, come le radiazioni infrarosse.
Molti di questi batteri sulla Terra, infatti, contengono pigmenti viola. Se su un pianeta tali organismi fossero dominanti, produrrebbero una distintiva “impronta digitale della luce” rilevabile dai telescopi terrestri e spaziali a tali lunghezze d’onda.
L’evoluzione del viola
Si stima che la vita sulla Terra sia comparsa fra 3,7 e 4,1 miliardi di anni fa, a cavallo fra il periodo Archeano e l’Adeano, sebbene non si sia capito ancora in maniera univoca quale sia stata la scintilla che ne abbia causato l’origine. La vita si è sviluppata partendo dall’evoluzione prebiotica fino allo sviluppo della cellula, approdando alle pendici del monte evolutivo, dove Luca, l’ancestor comune e universale di tutti gli organismi, sottende ora all’evoluzione di un codice genetico comune.
I fattori che hanno segnato la vita dal punto di vista evolutivo sono stati la comparsa del potenziale transmenbrana e l’accoppiamento chemiosmotico. Queste caratteristiche, oltre all’immagazzinamento dei pigmenti, hanno permesso di sviluppare un processo per catturare la luce all’interno della cellula trasformandola in energia per mezzo di processi fototrofici e fotosintetici.
Una firma della presenza della vita è stata la presenza di isoprenoidi, lipidi costituiti da unità ripetute di cinque atomi di carbonio (isoprene) e che formano lunghe catene sature. Questa evidenza geologica ha permesso di identificare una precoce comparsa di primitive forme di vita, gli archeobatteri, sulla Terra.
Si pensa che la prima forma di fotosintesi sviluppatasi sia quella anossigenica e solo in seguito, 2,9 miliardi di anni fa, si sia sviluppata la fotosintesi ossigenica. La prima, rispetto alla seconda, non comporta la produzione di ossigeno. In questo particolare tipo di fotosintesi, gli elettroni utilizzati dai fotosistemi non vengono forniti dall’ossigeno dell’acqua ma da composti dello zolfo, sostanze organiche o idrogeno.
In questo contesto, i pigmenti retinali sono probabilmente la più antica forma di invenzione metabolica comparsa sulla Terra e la più importante dopo lo sviluppo della membrana cellulare. Il retinale è un cromoforo polienico, ovvero un gruppo di atomi con coppie di carboni capaci di conferire colorazione ad una sostanza e che, legato a delle proteine dette opsine, costituisce la base chimica della vista.
Il retinale, legato a proteine dette rodopsine di tipo 1, permette ad alcuni microorganismi di convertire la luce in energia metabolica. Essi, infatti, formano una chemioproteina che nei batteri alofili di tipo Archea (batteri che vivono bene in condizione ipersaline) viene detta batteriorodopsina e nei batteri che vivono all’interno degli oceani (pelagici) proteorodopsina. L’assorbimento della banda spettrale della luce compresa fra 490 e 600 nm consente ai retinali di attivare la pompa protonica e i gradienti elettrochimici adatti alla sintesi dell’ATP, la principale forma di accumulo di energia di base.
La grande diffusione delle cromoproteine retinali in natura fa pensare che questa primitiva forma di immagazzinamento dell’energia si sia sviluppata nelle prime fasi della vita sulla Terra, forse anche prima della fotosintesi. Esse infatti si trovano sia negli organismi procarioti di tipo Archaea e Bacteria che negli eucarioti, dove assolvono un ruolo di primaria importanza nei meccanismi della visione.
Nelle prime fasi della vita sulla Terra l’ossigeno atmosferico era molto basso o inesistente. Questo ha portato alla produzione di retinali tramite processi ossidativi proprio come avviene oggi in ambienti strettamente anaerobici. Un esempio di processo che permette l’ossidazione anaerobica è l’ossidazione del metano e dell’ammoniaca ad opera di micro-organismi che operano in assenza di ossigeno e la conseguente trasformazione di queste in molecole dette isoprenoidi. L’evoluzione ha portato i moderni micro-organismi alofili del genere Archaea a poter scegliere un metabolismo anaerobico o aerobico, mentre gli aloarcheobatteri sono sempre stati obbligati alla respirazione anaerobica.
I pigmenti e la vita
I pigmenti fotosintetici sono un ottimo indicatore della presenza di vita. Le batteriorodopsine, un tipo di proteina retinale presente all’interno di molti batteri, hanno per esempio la caratteristica di avere un colore viola, tipico di molti laghi salati. Questo colore è il risultato dell’assorbimento a 568 nm nella banda giallo-verde dello spettro solare.
Le batteriorodopsine sono complementari rispetto ai pigmenti come la clorofilla. Il processo che ha portato alla nascita ed all’evoluzione dei pigmenti retinali potrebbe essersi sviluppato in maniera analoga anche su altri pianeti abitabili. Infatti, la dose di radiazione di molte stelle come F, G e K potrebbe permettere e garantire lo sviluppo di batterioclorofille o rodopsine, pigmenti alla base del metabolismo di molti batteri fotosintetici. Per stelle più fredde come le stelle M invece, il flusso di fotoni nella cosiddetta regione fotosintetica attiva (PAR) compresa fra 400 e 700 nm sarebbe più scarso e limiterebbe lo sviluppo di tali pigmenti. Tuttavia, esistono clorofille in grado di assorbire a lunghezze d’onda maggiori, come la clorofille f, laddove queste stelle hanno un picco di emissione. Molti batteri sono anche in grado di variare il loro apparato fotosintetico per venire incontro alle nuove condizioni di luce e massimizzare la produzione di energia.
Filtri che mostrano batteri viola non solforati misurati, batteri zolfo viola e cianobatteri viola. Crediti: Notices of the Royal Astronomical Society
I colori dello spazio
Al giorno d’oggi, i batteri viola possono prosperare in una vasta gamma di condizioni, in special modo in luce rossa o infrarossa a bassa energia, utilizzando sistemi di fotosintesi più semplici che utilizzano forme di clorofilla che assorbono l’infrarosso e non producono ossigeno e questo li rende uno dei principali candidati per la ricerca della vita su altri mondi. Per questo motivo è essenziale catalogare tutti i colori che indicano la presenza della vita, in modo che possano essere di aiuto per la ricerca studiando la luce riflessa dai pianeti. Spesso, infatti, gli stessi colori li potrebbero avere anche i minerali.
I cosiddetti “batteri viola”, in realtà, hanno al loro interno una gamma di colori tra cui giallo, arancione, marrone e rosso, causati dai pigmenti. Tali batteri potrebbero essere particolarmente adatti ai pianeti che circondano stelle nane rosse più fredde, il tipo più comune nella nostra Galassia.
Per questo, dopo aver misurato i biopigmenti dei batteri viola e le impronte digitali della luce, bisogna creare modelli di pianeti simili alla Terra con condizioni e copertura nuvolosa variabili per ricreare in laboratorio, le condizioni a cui i batteri potrebbero essere sottoposti su altri pianeti.