Memoria dal futuro

LA COVER STORY DEL DODICESIMO NUMERO DI COSMO

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di Emilio Cozzi e Matteo Marini

In archeologia esiste una regola semplice, intuitiva, che non ammette eccezioni: ciò che sta sopra è successivo a quel che sta sotto.

Scavare, l’attività più conosciuta degli archeologi se si esclude Indiana Jones, significa tornare indietro nel tempo. È il principio base della stratigrafia, della sedimentazione, della gravità.

Al contrario, per ricostruire il passato l’archeologia spaziale guarda in alto, dove la gravità è in stallo e niente si posa. L’architettura più complessa e ormai monumentale che l’umanità ha assemblato in orbita, la Stazione Spaziale Internazionale, è abitata da vent’anni.

Se documentare il passato significa ricostruire un vissuto remoto partendo dagli oggetti e dagli ambienti lasciati vuoti dai protagonisti, le immagini scattate da Paolo Nespoli e raccolte nel libro Interior Space, firmato con il fotografo della Nasa Roland Miller, utilizza proprio questo sguardo, sociologico e archeologico.

“Nei nostri scatti – racconta l’ex astronauta italiano dell’Agenzia spaziale europea -, mentre la figura umana non c’è, quasi ovunque ci sono tracce della sua presenza. Sono testimonianze, anzitutto, dell’aspetto tecnico, quello che davanti alle piramidi, per esempio, lascia di stucco per la precisione con cui sono stati intagliati e impilati i blocchi di pietra.

L’altro aspetto, per rimanere all’esempio egizio, è quello che tramortisce una volta notati graffiti e geroglifici: da quelle incisioni è possibile osservare come una civiltà antica vestisse, o quali oggetti utilizzasse nella propria quotidianità. Attraverso quei segni è possibile conoscerne la cultura. Ora, se gli egiziani con i geroglifici hanno voluto rappresentare la loro identità, allo stesso modo per capire la nostra epoca non è sufficiente l’aspetto tecnico della Iss. La cultura bisogna scovarla guardandosi intorno”.

Perché lì attorno, a 400 chilometri di distanza dalla superficie terrestre, c’è di tutto: “cavi che innervano le strutture, schermi che lampeggiano, serbatoi e strumenti necessari alla sopravvivenza, equipaggiamenti fissati alle quattro pareti. Ci sono quattro pavimenti e nessun soffitto, su o giù in orbita sono concetti senza senso”.

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Sembra il caos, ma niente è lasciato al caso. La stazione è un complesso produttivo: “Se vai per strada e trovi un pezzo di carta, puoi dire sia casuale – continua Nespoli – ma se sulla Stazione trovi un pezzo di carta puoi essere certo che è arrivato lì dopo aver fatto il giro del mondo”.

Fuori, all’esterno dell’avamposto orbitante, c’è il vuoto. Invivibile. Dentro, ingegneri e astronauti hanno dovuto ricreare qualcosa che somigliasse il più possibile alle condizioni che ci sono quaggiù, come esploratori che costruiscono un nuovo insediamento in una terra senza pietà e senza peso, dove qualsiasi cosa è sospesa in un continuo vagare.

“Prendiamo i sacchetti Ziploc, quelli di plastica con il sigillo a pressione: sono impiegati per mille cose sulla Iss, ognuno ha il velcro per fissarli a una parete” spiega Alice Gorman, archeologa australiana che ha portato gli studi sull’antico alla civiltà spaziale con il libro Dr. Space Junk vs the Universe.

“Se si chiedesse a un astronauta: ‘A cosa serve quel sacchetto?’ risponderebbe che ‘Contiene pezzi di mela, o un paio di forbici, o un altro strumento’. In breve: a contenere qualcosa. Tuttavia, da un punto di vista archeologico, il suo uso non si limita a questo.

La mia teoria è che quel piccolo sacchetto di plastica riproduca gli effetti della gravità all’interno della Stazione, bloccando un oggetto o una sostanza in un unico posto, rendendoli rintracciabili. È la stessa cosa che fa la gravità sulla Terra. Siamo di fronte a una nuova dimensione di quell’oggetto”.

Con il collega Justin Walsh Gorman ha ricevuto fondi dall’Australian Research Council per indagare, come fanno gli archeologi, questi dettagli: “Quello su cui stiamo concentrando la nostra ricerca è come i membri dell’equipaggio si comportino o agiscano per poter accedere a questi piccoli ‘frammenti’ di gravità – spiega Gorman – come ciò strutturi il loro comportamento.

E tutto avviene in maniera naturale, senza pensare, così come nessuno riflette quando si alza per andare in camera da letto. Ci interessano quei modelli di comportamento di cui nemmeno l’equipaggio è consapevole”. 

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È un tempo, il nostro, in cui il progresso vola e definisce a cadenze di decenni nuove ere: “Ormai siamo giunti al ventesimo anniversario della nostra permanenza sulla Stazione Spaziale Internazionale. È un traguardo eccezionale: significa che un adolescente di oggi ha vissuto tutta la sua vita consapevole che altri esseri umani, come Paolo, vivevano 24 ore su 24 all’interno della Iss” sottolinea Dava Newman, docente di Astronautica del programma Apollo presso il Massachusetts Institute of Technology e vice direttrice della Nasa dal 2015 al 2017. “Ormai esiste una space generation. È incredibile”.

In questo momento e fino a fine dicembre le immagini di Miller e Nespoli sono esposte alla Galleria del Cembalo a Roma, in una dissonanza densa di fascino con le antiche pareti di Palazzo Borghese che ospitano lo spazio espositivo.

È un riconoscimento artistico che supera l’aspetto della documentazione: “Sembrano foto tecniche – chiosa Nespoli – una documentazione neutra degli aspetti materiali di una ingegneria orbitante.

Eppure la loro composizione, il colore, la ricerca di dettagli e particolari ne fanno l’epitome di quello che può fare l’essere umano. Non è azzardato sostenere che alla fine, dopo essere stata la casa di centinaia di persone per oltre vent’anni, la Iss sia di per sé quasi umana. Non è una sala operatoria e diventa, volenti o nolenti, casa tua, quindi la trasformi. Osservandola si potrebbero dedurre quelle che sono le necessità umane di base”.

Tutti ci siamo immaginati ambienti spaziali molto diversi, aiutati dalla fantascienza, da 2001: Odissea nello spazio a Star Trek. La realtà di una convivenza extraterrestre è tuttavia molto più “sporca” rispetto alla pulizia asettica della Stazione 5: “Questo mi fa venire in mente un aneddoto: i cacciatori-raccoglitori spesso vivono in un territorio per un po’ di tempo, finché non si accumulano troppi rifiuti, che rischiano di diffondere malattie o infezioni.

A quel punto se ne vanno, lasciandosi tutto alle spalle. Quando, però, torneranno in quel luogo, tutta la spazzatura sarà andata distrutta e sarà stata reintegrata nella natura.

È un comportamento che gli agricoltori non possono adottare, perché sono stanziali, bloccati nei loro appezzamenti di terreno. Ecco, la Stazione Spaziale Internazionale è un po’ così: chi è a bordo deve fare i conti con i propri rifiuti (ovviamente esiste un sistema di smaltimento), ma nessuno può andarsene mentre è lassù: nessuno può permettersi di dire: ‘qui c’è troppo disordine, me ne vado”.

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È così che la prima e la seconda generazione spaziale hanno già consegnato alla storia pezzi di civiltà, stratificati, anche senza la collaborazione della gravità, in un “sito archeologico” che viaggia attorno alla Terra a quasi otto chilometri al secondo, visibile da tutti quando il Sole illumina i suoi pannelli solari, visitabile da quasi nessuno.

Newman ha firmato uno degli interventi riportati in Interior Space: “È un libro unico, diverso da tutti gli altri del genere, che tendono perlopiù a concentrarsi sulle persone, sul viaggio. Il libro di Nespoli e Miller è un invece un portale, capace di immergerci dentro una tecnologia meravigliosa, fra i manufatti e l’hardware della Iss.

Ovviamente ci sono anche le persone, perché sono loro ad aver progettato, costruito e assemblato questa meravigliosa opera tecnologica. Inoltre ci è data la possibilità unica di guardare il nostro Pianeta con occhi nuovi. È inevitabile, in quanto esseri umani, desiderare comunque di rivolgere lo sguardo verso casa. Solo all’apparenza algido, Interior Space è una riflessione sull’umanità e un riflesso dell’umanità”.

Non si tratta solo di ammirare il mondo attraverso quella che è diventata la finestra più esclusiva da cui un uomo si sia mai affacciato. L’indagine archeologica e sociologica cerca le risposte contenute nella Storia. E insegna che comprendere il presente, imparando dal passato, è necessario per immaginare il futuro: “Si deve pensare alla vita sulla Iss come ridotta all’essenziale – osserva Gorman – è una quotidianità in cui il disordine delle nostre giornate terrestri non è ammissibile.

Questo permette di vedere in maniera chiara come si comporti l’essere umano quando è privato di tutti quegli oggetti che popolano la sua vita ordinaria, per esempio quando deve preparare il cibo con quel poco che ha a disposizione, oppure quando è costretto a vivere per mesi dentro il suo posto di lavoro.

Che cos’è la Iss se non un laboratorio in cui tutti lavorano e dormono? Questo la rende unica e, allo stesso tempo, rivela molto del tipo di società che l’ha creata: è una civiltà che sta iniziando a sviluppare la sua capacità di vivere nello spazio e che dà maggiore importanza a un ambiente pensato per incentivare la produttività dei suoi abitanti più che il loro agio”.

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Prima che fosse aggiunta la Cupola, gioiello italiano che permette di osservare le manovre del Canadarm come di ammirare la Terra nella sua abbagliante bellezza, gli astronauti guardavano fuori da alcuni oblò. Era quello il loro unico campo di vista esterno.

Anche questo dice molto su come la nostra cultura concepisca la vita nello spazio: “Quando è stata costruita la Stazione, gli aspetti psicologici e il supporto agli astronauti erano questioni considerate secondarie – conferma Nespoli – gli astronauti erano percepiti come eremiti su una montagna.

Da un lato è corretto, dall’altro no: siamo pur sempre esseri umani e vivere confinati e isolati per molto tempo, con turni di lavoro massacranti, ci è tollerabile fino a un certo punto. La Iss ha quindi subito una graduale trasformazione.

Oggi sulla Stazione siamo ‘comodi’, perché era ovvio occorresse anche pensare a un posto dove la gente mangia, si lava e va in bagno. Anche dalle nostre foto è evidente come questo processo sia stato una sorta di pezza sui pantaloni: lo spazio in cui sistemare gli effetti personali, per esempio, non c’è.

Il tavolo esiste da poco; il gabinetto è proprio accanto al tapis roulant, nel Nodo 3, che è un’area di lavoro ed equipaggiamento. Per anni in orbita si è dormito campeggiando con i sacchi a pelo. La possibilità di crearsi un ambiente vivo, dove appendere una fotografia o sistemare le proprie cose, si è concretizzata molto dopo”.

Il lavoro di Gorman e Walsh potrà dunque avere anche questa finalità: analizzare i pattern comportamentali, capire dove gli equipaggi abbiano vissuto e quali stanze abbiano abitato di più nello spazio, quali oggetti siano stati maggiormente usati e come, o dove, siano stati spostati. Per farlo, sarà usata anche l’intelligenza artificiale, capace di classificare le foto, gli elementi che vi sono contenuti e il volto delle persone.

Per scelta delle agenzie spaziali, gli archeologi non sono ammessi allo spazio, ma la loro è una prospettiva che può aiutare a progredire verso una produttività sempre più in sintonia con la vivibilità: “Abbiamo la sensazione che scopriremo cose mai notate in precedenza – conferma Gorman – come archeologi, guardiamo gli oggetti andando oltre il loro aspetto: ai nostri occhi una tazza o un bicchiere non sono solo una tazza e un bicchiere.

Cerchiamo di capire da dove siano arrivati, chi li usi, perché siano finiti in un determinato posto e cosa succederà quando si romperanno. Questo è il tipo di interrogativi che ci poniamo”.

Come un palazzo o un’abitazione da abbattere e ricostruire, nel 2028 la Iss dovrebbe giungere al termine della sua vita operativa (al suo destino dopo il 2024 è dedicato l’articolo a pag. 24).

La gloria di cui è ammantata non le impedirà di bruciare in atmosfera, come hanno fatto la Mir e lo Skylab: “Istintivamente mi viene da dire sia giusto così: considerando i suoi vent’anni di attività, sommati ai dieci anni che sono stati necessari per la costruzione, l’hardware a bordo della Iss ha oltre tre decadi sulle spalle.

Per questo credo sia giunto il momento di abbandonare la Stazione – riflette Newman – questo ci ricorda la natura precaria delle cose e dovrebbe aiutarci a capire che dobbiamo trarne il massimo finché le abbiamo a disposizione.

È una consapevolezza che considero il motore per spingerci a progettare e creare qualcosa di nuovo e migliore”.

Una regola, come quella più intuitiva dell’archeologia, che non dovrebbe ammettere eccezioni.

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