Jim Lovell ricorda l’Apollo 13

A CINQUANT’ANNI DALLA MISSIONE SPAZIALE CHE SFIORÒ LA TRAGEDIA, NE PARLA IL SUO COMANDANTE

“Fu la cosa migliore che ci potesse succedere” (Jim Lovell)

13 aprile 1970.

A New York l’orologio segna le 23 e 30 in punto quando sulla Abc inizia il Dick Cavett Show. Durante l’introduzione del suo programma, Cavett ricorda che in quel momento tre americani, il comandante James Lovell, Fred Haise e Jack Swigert, sono a 321mila chilometri dalla Terra, lanciati verso la Luna nella missione Apollo 13.

Il conduttore fa battute: sa bene che, nonostante sia la missione spaziale fin lì più significativa dal punto di vista tecnico e scientifico, agli americani non importa nulla. Al terzo appuntamento, per loro la Luna è una conquista già vecchia. Non è un caso che la prima notizia del lancio, quella settimana, il New York Times l’abbia pubblicata solo 24 ore prima del decollo e a pagina 78, quella delle previsioni del tempo. E non è un caso che invece di qualsiasi altra cosa Cavett si soffermi sulla nomea da scapolo sfrenato di Swigert, l’unico astronauta non coniugato accettato dalla Nasa. A un certo punto, il presentatore scherza anche sul perché la partenza della missione, avvenuta da Cape Canaveral alle 13 e 13 dell’11 aprile, abbia registrato un calo di ascolti di 3 milioni di persone rispetto al precedente: “La gente pensava fosse una replica estiva” dice innescando le risate del pubblico in studio.

È su questa battuta, manco la Abc faccia apposta, che compare una schermata nera con una scritta rossa: “Apollo 13: notiziario speciale”. In diretta, il volto scientifico della rete, Jules Bergman, sostituisce quello ridanciano di Cavett: “L’astronave Apollo 13 ha subito una grave avaria dell’impianto elettrico. Gli astronauti non corrono alcun pericolo immediato, ma è esclusa qualsiasi possibilità di allunaggio. Il Centro di controllo conferma che il problema è grave”.

Difficile capire come un problema grave, a 321mila chilometri dalla Terra, non minacci gli astronauti. Che infatti, per l’esplosione di un serbatoio di ossigeno dovuta a un corto circuito alle 21:07, in pericolo lo sono e sul serio. Se ne rende conto tutto il mondo: già la mattina dopo Apollo 13 riempie i giornali di ogni lingua e latitudine. Ogni ingegnere o tecnico della Nasa, la maggior parte volontariamente, fa turni straordinari. Il presidente, Richard Nixon, chiede aggiornamenti costanti. “Il fallimento non è un’opzione” diventerà il motto (inventato) per spiegare come, in quattro giorni, le migliori menti del Paese collaborino per riportare a casa, sani e salvi, Lovell e il suo equipaggio. Tutto con la trepidazione del mondo addosso, compresa quella di papa Paolo VI – che il 15 aprile recita la preghiera per gli astronauti – e degli avversari politici di sempre, dall’Unione sovietica alla Cina, immediatamente disposti a dare una mano. Fino alle 13:07 del 17 aprile, quando ammarato nell’Oceano Pacifico dopo l’ultimo momento d’ansia – un silenzio radio durato il doppio del normale –, rivolto ai suoi due compagni Lovell dice in diretta radio ”Siamo a casa”.

A cinquant’anni da allora, Apollo 13 ha inciso la storia con un film da Oscar diretto da Ron Howard, con modi di dire entrati nella parlata comune, da “Houston, abbiamo un problema” a quel Failure is not an option che titolò l’autobiografia di Gene Kranz, l’allora direttore di volo della Nasa, e con una serie di indicazioni diventata la base dei protocolli di sicurezza ancora applicati ai voli spaziali. Soprattutto, però, Apollo 13 è diventata il simbolo di come, da un disastro, l’Uomo possa sempre cavare un successo.

Ne abbiamo parlato con il comandante Lovell, neo 92enne (compie gli anni il 25 marzo), che ricorda ogni secondo della missione come fosse ieri.

Comandante, oggi che cosa rappresenta per lei l’Apollo 13?

Un lavoro svolto egregiamente, che ha messo in luce la professionalità e le capacità della Nasa nel gestire un evento destinato a catastrofe quasi certa.

L’agenzia lo archiviò come un “fallimento di successo”.

Mi permetto un paragone con Apollo 11, perché entrambe le missioni rappresentano momenti fondamentali della nostra storia.

La missione di Neil Armstrong ha magistralmente centrato il suo obiettivo iniziale. Apollo 13, sebbene lontana dal suo target e dalle procedure standard, è stata l’esempio di come, sfruttando risorse, idee e strategie diverse, il programma ha risolto una crisi imprevedibile, causata da un’esplosione a bordo. Due esempi diversi di successo.

Lei contribuì alle indagini sull’incidente del suo collega Ted Freeman, precipitato con il suo jet T-38, e su quello dell’Apollo 1, che il 27 gennaio del ’67, durante un test sulla rampa, costò la vita a tutto l’equipaggio. Da astronauta, si è mai chiesto cosa vi spingesse a rischiare tanto?

Se si guarda la mia carriera, si nota subito che tutti i miei incarichi sono stati ad alto rischio: ho iniziato come aviatore navale, esperto di atterraggi notturni sulle portaerei. Quindi sono diventato collaudatore per la Marina, testavo apparecchi nuovi e spesso problematici. Non credo ci sia da sorprendersi se quando venni coinvolto nel programma spaziale sentii che sarebbe diventato la mia vita. I pericoli non mi hanno condizionato, l’istinto mi ha sempre suggerito cosa fosse giusto fare. Credo abbia avuto ragione.

Leggenda vuole che rischiò grosso già al suo primo volo notturno.

Non è una leggenda: per un problema al sistema elettrico del mio aereo, causato da una lampada che avevo costruito personalmente, le luci sul quadro comandi si spensero e con loro si interruppero i contatti radio. Per fortuna, scrutando l’oceano, scorsi una fascia luminescente verdastra sul pelo dell’acqua, provocata dalle alghe planctoniche agitate dall’elica della portaerei. Solo grazie a quella “pista” riuscii ad atterrare. Il mio superiore mi rispedì in volo già la notte successiva. La mia lampada la lasciai in cabina.

Un guasto premonitore. Prima di andare oltre, però, sarebbe bene riassumere quanto accaduto all’Apollo 13: 56 ore dopo l’inizio della missione, azionaste le ventole all’interno del serbatoio per il terzo cryo-stir, la procedura per rimescolare l’ossigeno e impedirne la stratificazione. La corrente attraversò un filo danneggiato – che in un test a terra era stato sottoposto a una corrente di 65 volt sebbene fosse progettato per funzionare a 28 – e il filo produsse un corto circuito che incendiò il rivestimento in teflon in un ambiente saturo di ossigeno puro. Il fuoco scaldò la temperatura e aumentò la pressione dell’ossigeno all’interno del serbatoio e, probabilmente, si diffuse lungo i cavi verso il condotto elettrico sul lato del serbatoio. Questo scoppiò causando l’esplosione del serbatoio di ossigeno numero 2, che a sua volta danneggiò il numero 1, parte degli interni del Modulo di servizio e fece saltare il coperchio del Bay numero 4. Questa è la versione tecnica; ora mi parli lei dell’incidente e della sua frase simbolo: come andò esattamente?

L’esplosione del serbatoio di ossigeno numero 2 è avvenuta mentre stavo passando dal modulo lunare, l’Acquario, a quello di comando, l’Odissea. In quel momento Swigert, all’interno di Odissea, ha percepito chiaramente il tonfo, un suono grave, metallico, come se qualcosa ci avesse colpiti – la prima ipotesi fu che un asteroide avesse centrato l’astronave, come conferma anche Haise nell’intervista pubblicata su Como 6, ndr.

Vista una spia accesa, che indicava l’avaria totale di una delle celle a combustibile, Swigert ha subito contattato il Capcom e ha detto precisamente: “Ok Houston, abbiamo avuto un problema, qui”. Otto secondi dopo, dal Controllo missione hanno chiesto di ripetere. A quel punto sono intervenuto io: “Houston, abbiamo avuto un problema”. Non avevamo idea di cosa fosse successo in quel momento.

Quindi la frase fu pronunciata al passato. Anche Kranz non disse mai “il fallimento non è contemplato”, vero?

Esatto: sebbene accreditata a lui, Failure is not an option è una frase scritta da Bill Broyles, uno degli sceneggiatori del film sulla nostra missione.

A proposito, l’ha visto? Che ne pensa?

L’ho visto quando è uscito, nel 1995, e mi è piaciuto molto. È basato su Lost Moon, il libro che ho scritto con Jeffrey Kluger, ed è davvero accurato. Credo ogni tanto lo passino ancora in tv.

Avete mai pensato, in quei giorni, che non sareste tornati?

Sì, soprattutto appena capito di aver perso tutto l’ossigeno del Modulo di servizio. Lo sconforto, però, non ci ha mai sopraffatti. Quando ci siamo accorti di quanto il sistema elettrico del Modulo di comando fosse compromesso, abbiamo subito intuito che per rientrare sulla Terra avremmo dovuto sfruttare il Modulo lunare e i suoi propulsori, sebbene nessuno l’avesse fatto prima. Per fortuna, l’esplosione si verificò quando il rientro era ancora possibile. Se l’incidente fosse avvenuto dopo l’ingresso in orbita lunare o, peggio, dopo l’allunaggio, non saremmo qui a parlarne.

Ha sempre detto che dopo Apollo 13 non avrebbe più volato. Perché?

Dopo due Gemini – 7 e 12, ndr – e l’Apollo 8, la 13 era la mia quarta missione spaziale. Avendo già rischiato la vita in un paio di occasioni, decisi con mia moglie Marilyn, che ebbe un ruolo fondamentale nella scelta, che quella sarebbe stata la mia ultima volta e che era giunto il momento di lasciare il campo ad altri.

Se ripensa a quel periodo, quali sono i suoi ricordi più intensi?

Ne ho due, il primo legato all’Apollo 13: è l’istante esatto in cui abbiamo toccato l’oceano. Rivedo ancora gli schizzi d’acqua contro il finestrino.

L’altro ricordo arriva dall’Apollo 8 ed è legato alla vista, per la prima volta, del lato nascosto della Luna e allo spettacolo della Terra vista da lassù, durante una meravigliosa alba: un pianeta piccolissimo, a soli 400mila chilometri di distanza, che riuscivo a coprire appoggiando il pollice sul finestrino. In quell’istante ho realizzato che tutto quello che conoscevo era dietro al mio dito: milioni di persone, montagne, foreste, tutta l’esistenza a me nota era nascosta lì. Mi sono reso conto di quanto il genere umano sia fortunato a vivere su un pianeta come la Terra, che ci dà aria, acqua e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere.

Si sarebbe immaginato, allora, che la Luna e lo spazio sarebbero diventati anche una frontiera del business?

Onestamente no. Quando Elon Musk annunciò di voler commercializzare lo spazio ero piuttosto perplesso:  un imprenditore che voglia commercializzare qualcosa, deve essere certo che avrà un’utenza e che ne trarrà profitto. Un approccio allo spazio che nulla ha a che vedere con quello delle prime missioni.

Tuttavia, visto ciò che sta succedendo, devo ammettere che Musk e imprenditori come lui stanno creando macchine per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, con l’idea di rivenderne l’uso al governo e ad aziende private. Siamo all’inizio di una nuova era. Non immaginavo potesse realmente accadere.

Qual è l’eredità più grande della prima corsa allo spazio?

Credo consista in una maggiore consapevolezza delle nostre capacità. Avevamo un progetto: volevamo esplorare lo spazio e proprio questo abbiamo fatto. Con i programmi Mercury, prima, e Gemini, poi, siamo riusciti a raccogliere tutte le informazioni e le competenze necessarie per trasformare Apollo nel successo che fu. Siamo riusciti a gestire cambiamenti importanti, per esempio proprio nella “mia” Apollo 8: originariamente non avrebbe contemplato un lunar flight. A causa di un ritardo nella messa a punto del Modulo lunare, il profilo della missione venne però modificato e fu deciso di inviare soltanto i Moduli di comando e servizio attorno alla Luna. Ebbene, quegli imprevisti portarono a una missione di successo, che ci ha permesso di migliorare la nostra  capacità di cambiare le cose in corso e di prendere decisioni improvvise: abilità fondamentali in vista, soprattutto, di Apollo 11. Fu un periodo molto significativo.

A proposito di Apollo 8, con Frank Borman e William Anders foste i primi tre uomini a vedere il lato nascosto della Luna. A lei ricapitò con Apollo 13. Oggi che cosa pensa del programma Artemis, che si prevede ci riporterà ad allunare entro il 2024?

È fondamentale tornare sulla Luna per studiarla in maniera sempre più approfondita. Tornarci significherà soprattutto accumulare maggiore esperienza, continuare a esercitarsi e perfezionare la tecnologia che ci permetterà, in futuro, di spingerci oltre. Sono sicuro che presto metteremo piede su Marte ed è per questo che ritengo il motto dell’Apollo 13, Ex Luna, scientia (“Dalla Luna, la conoscenza”), ancora attuale.

Comandante, e se con Apollo 13 fosse andato tutto bene?

Me lo sono chiesto tante volte, ho sofferto molto la delusione di non aver toccato il suolo lunare. Visto com’è andata in questi cinquant’anni, però, ho capito che se tutto avesse girato per il verso giusto, la nostra missione sarebbe finita nel dimenticatoio della storia spaziale, sepolta con altre missioni tutte uguali.

Apollo 13 ha invece tirato fuori quello che la gente sa fare quando c’è una crisi. Per questo oggi penso che quella esplosione fu la cosa migliore potesse capitare al nostro programma spaziale e in quel momento specifico: è lei ad aver consentito a gente di talento di trasformare una catastrofe quasi garantita in un atterraggio sicuro.

Questa intervista è pubblicata sul numero 6 di COSMO (maggio 2020) in uscita in edicola nei prossimi giorni ed è disponibile in formato pdf, completo di tutte le immagini a corredo, scaricabile liberamente a questo link.

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