L’evoluzione della fotosintesi sulla Terra

LO STUDIO DI UNA AMEBA CERCA DI RISPONDERE AD ANTICHE DOMANDE

Immagine artistica di un pianeta con forme di vita fotosintetiche

I rapidi progressi nella scienza degli esopianeti ci hanno portato sempre più vicini alla rilevazione delle firme della vita, le biosignatures ed eventualmente delle tecno-firme su altri mondi. Questa ricerca è aiutata dalla continua scoperta di pianeti a un ritmo crescente intorno alle stelle vicine e anche nelle galassie vicine.

Nei prossimi anni il bouquet di pianeti conosciuti oggi sarà notevolmente ampliato e sarà allora che le osservazioni spettroscopiche riusciranno a fare la differenza.

Il concetto di abitabilità è molto complesso e sfaccettato. Esso è un miscuglio di vari ingredienti come l’energia delle radiazioni, la presenza di acqua e una temperatura in grado di mantenerla. Ma non basta. Occorrono moltissime condizioni al contorno. Il nostro laboratorio di analisi è la Terra. E la Terra è il pianeta roccioso con la maggiore efficienza di radiazione fotosintetica attiva.

Uno studio recente effettuato sull‘ameba fotosintetica Paulinella, un organismo modello come sono soliti dire i biologi per esplorare l’evoluzione degli eucarioti, cerca di rispondere alla domanda: perché c’è stata un’unica origine di alghe e piante? E perché la fotosintesi, originatasi per endosimbiosi primaria dei plastidi non ha avuto origine più volte nel corso delle ere?

La fotosintesi è il processo attraverso il quale piante e altri organismi come le alghe viene sfruttata la luce solare per sintetizzare l’anidride carbonica e produrre ossigeno come sottoprodotto. Ma c’è stato un lungo periodo, sulla Terra, in cui essa ancora non esisteva. Ad un certo punto della storia evolutiva è avvenuto qualcosa di incredibile: l’endosimbiosi.

Nel passato remoto del Precambriano, un batterio aerobico che per vivere ha bisogno di ossigeno, fu ingerito da un batterio anaerobio, che proprio non lo tollera, acquisendo un vantaggio reciproco.  Nel tempo, 1,5 miliardi di anni fa, il batterio interno ha perso o spostato materiale genetico nel nucleo dell’ospitante, per la codifica di tutto ciò che non era più necessario o superfluo.

Tutti gli organismi viventi sono classificati come appartenenti a uno dei tre domini principali: Bacteria, Archea ed Eukarya. Bacteria ed Archea sono organismi piuttosto semplici, caratterizzati da una organizzazione cellulare elementare e privi di nucleo o organelli cellulari mentre gli eucarioti risultano notevolmente più complessi e presentano al loro interno strutture specializzate per lo svolgimento di specifiche funzioni: i plastidi.

Tutte le cellule eucariote possiedono al proprio interno degli organelli speciali, in grado di fornire loro l’energia per svolgere le proprie funzioni vitali. Tali organelli, definiti globalmente “plastidi”, sono mitocondri e cloroplasti. I mitocondri forniscono energia mediante la respirazione cellulare, processo attraverso cui molecole organiche vengono ossidate per produrre energia chimica; i cloroplasti invece sono gli organelli deputati alla creazione della materia organica a partire da semplici composti minerali sfruttando l’energia solare: la fotosintesi clorofilliana, appunto. Il passaggio da forme cellulari semplici a forme complesse e organizzate come le cellule eucariote è stato il primo grande salto dell’evoluzione della vita sulla terra e le modalità con cui ciò sia avvenuto sono rimaste a lungo un mistero.

Questa interazione è un rischio, come tutte le società, ma quando stabile e benefica per la cellula ospite, porta a una importante innovazione genetica. Un salto di qualità insomma. A tutt’oggi ancora abbiamo una conoscenza limitata di come l’endosimbiosi è realmente iniziata ma abbiamo prove indirette che l’endosimbiosi primaria, sia andata proprio così. La creazione di un nuovo organello è un processo altamente complesso che rende questo avvenimento molto raro nella storia dell’evoluzione.

Il processo di endosimbiosi non è avvenuto un’unica volta nella storia della vita, ma si è ripetuto in più occasioni. Alla base della nascita di alcune linee evolutive, per esempio, vi è una serie di endosimbiosi successive. È il caso delle alghe: la fotosintesi clorofilliana è un processo messo a punto, evolutivamente, da un unico gruppo di organismi: i cianobatteri. Tra questi, vi sono i predecessori dei moderni cloroplasti, che furono acquisiti dalle cellule eucariote circa 1 miliardo di anni fa. Da questo evento di endosimbiosi primaria sono nate le alghe verdi e le alghe rosse. Le alghe brune, invece, sono endosimbionti secondari, originatesi quando un eucariote eterotrofo ha assunto all’interno della propria cellula una alga rossa; quindi, un organismo che a sua volta era stato generato da un processo di endosimbiosi primaria.

Paulinella è l’unico caso noto di un’endosimbiosi primaria indipendente, diversa dalle alghe e dalle piante, ed offre molti indizi per spiegare perché questo processo sia così raro. L’origine della fotosintesi nelle alghe e nelle piante ha cambiato il nostro pianeta fornendo una fonte importante di ossigeno e supportando molti ecosistemi, fissando il carbonio per la produzione di zuccheri e lipidi. Il genoma di Paulinella contiene molti geni evolutisi in modo indipendente e coinvolti nella fotosintesi e nella gestione dei processi che potrebbero essere ingegnerizzati in alghe e piante e aiutare a migliorare la loro capacità di resistere a stress come alti livelli di luce o stress foto-ossidativo.

Le potenzialità che si aprono sono molte, anche in campo spaziale, dalla bio-ingegnerizzazione di batteri per produrre un’atmosfera locale e la possibilità di stanziamenti umani in pianeti differenti dalla Terra o dall’analisi vera e propria dei processi che potrebbero avere portato all’evoluzione della fotosintesi o di processi analoghi su altri mondi.

Il processo della fotosintesi.

 Fotosintesi sotto soli rossi

Un recente studio ha cercato di capire se su pianeti rocciosi simili alla Terra in orbita stretta attorno a stelle nane rosse ultra-fredde sia possibile la vita.

Le stelle di questo tipo hanno un’emissione molto limitata nella regione fotosinteticamente attiva dello spettro (400-700 nm), suggerendo che potrebbero non essere in grado di supportare tutte le forme di vita che operano la fotosintesi ossigenica.

Tuttavia, i fotoautotrofi sulla Terra sfruttano frequentemente ambienti con illuminazioni molto deboli grazie all’aiuto di sistemi di antenne altamente strutturati ed estremamente efficienti. Inoltre, i batteri fotosintetici anossigenici non hanno bisogno di ossidare l’acqua per generare elettroni, ma possono sfruttare la luce rossa e vicina all’infrarosso. Se un organismo fotosintetico evolvesse un’antenna che massimizza il tasso di input di energia riducendo al minimo le fluttuazioni, è stato scoperto che i picchi ottimali dell’antenna diventerebbero più rossi con la diminuzione della temperatura stellare, passando alle tipiche gamme di lunghezze d’onda associate ai fotoautotrofi anossigenici a ∼3300 K.

Questo ci dice che le stelle di piccola massa non presentano automaticamente condizioni limitanti la luce per la fotosintesi, ma possono selezionare organismi anossigenici.

Quando un pianeta è di fronte alla sua stella, parte della luce stellare viene assorbita dalle molecole nell’atmosfera del pianeta. Un telescopio puntato sulla stella osserva la luce che non viene assorbita e questo crea uno spettro con regioni in cui manca la luce. CREDITI: NASA, ESA, CSA, STSCI, JOSEPH OLMSTED (STSCI)

L’efficienza fotosintetica e gli esopianeti

Di recente è stato scoperto un pianeta, Kepler-442b, che riceve un flusso di fotoni PAR leggermente più grande di quello necessario per sostenere una grande biosfera, simile alla Terra. Quindi, se ci fosse una biosfera su Kepler-442b, probabilmente non sarebbe limitata dalla luce. Questo pianeta inoltre non è nemmeno in risonanza mareale con la sua stella madre, una stella di tipo K e questo lo rende un promettente obiettivo per la ricerca di biofirme.

Le stelle di tipo K infatti, forniscono infatti un buon ambiente per la vita. Tuttavia, dobbiamo tenere presente che la produzione di biomassa sulla Terra non è limitata dalla quantità né dalla qualità della radiazione in entrata, ma piuttosto dalla disponibilità di nutrienti. In alcune popolazioni di fitoplancton oceanici infatti, circa il 60% dell’energia solare PAR assorbita viene dissipata sotto forma di calore. Il fitoplancton ad esempio, opera con un’efficienza fotosintetica molto più bassa di quanto siano potenzialmente in grado di raggiungere, poiché sulla Terra la luce è una risorsa molto abbondante.

Immagine artistica di un pianeta abitabile intorno a una nana M (a sinistra) e alla Terra primordiale (a destra). La superficie del pianeta nano M è illuminata dalla luce visibile. D’altra parte, condizioni di luce simili sono previste anche sott’acqua, poiché solo la luce blu-verde può penetrare metri d’acqua.

Si possono rilevare le foreste sugli esopianeti?

Quindi c’è vita fuori dal nostro pianeta? Gli astronomi stanno facendo di tutto per cercare di rispondere a questa domanda. Finora sono stati scoperti più di 5000 esopianeti e molte sono le tecniche sorte per cercare la vita su di essi. Prevalentemente si è concentrati sull’analisi degli spettri delle atmosfere dei pianeti per carpire delle molecole, i biomarker, che potrebbero dare indizi sulla presenza di organismi. Tuttavia pochi sono stati i tentativi di cercare la vita complessa nella banda visibile (mentre nel radio ci si lavora già da molti anni col progetto Seti).

Gli strumenti, allo stato dell’arte, hanno una risoluzione molto povera per poter vedere in dettaglio la superficie degli altri mondi. Tuttavia, un team di astronomi e informatici della Northern Arizona University, hanno voluto provarci. E lo ha fatto usando una delle cose più preziose che abbiamo sulla Terra: le piante. Come sulla Terra, le piante proiettano le loro ombre in modo diverso rispetto agli oggetti inanimati.

Dice l’autore: “Se si va fuori a mezzogiorno, quasi tutte le ombre proverranno da oggetti umani o piante e ci sarebbero pochissime ombre in questo momento della giornata se non ci fosse vita multicellulare.” L’utilizzo di futuri telescopi spaziali permetterà di osservare i tipi di ombre proiettate dovrebbe, in teoria, determinare se ci sono forme di vita simili sugli esopianeti. Il problema come già detto sorge dal fatto che, presumibilmente, la presenza o meno di ombre si giocherà a livello di un solo pixel nell’immagine. Ma con un solo pixel è davvero dura! E se fossero crateri che proiettano le ombre? Ebbene, usando i droni per guardare il sito di atterraggio lunare della missione Apollo, replicato nel nord dell’Arizona, i ricercatori hanno visto che le ombre proiettate dai crateri sono differenti da quelle proiettate dagli alberi. Visto che funzionava, hanno provato a estendere la ricerca in altre zone della Terra e a differenti ore del giorno, degradando l’immagine per simulare la bassa risoluzione e confrontandole con dati simili provenienti da Marte, Luna, Venere e Urano per vedere se la vita multicellulare della Terra era unica. Ebbene, gli alberi si distinguevano su piccola scala ma se si osservava il pianeta nel suo complesso come un singolo pixel, distinguere la vita multicellulare era molto difficile. Ma sebbene un esopianeta rappresenti soltanto un piccolo, singolo pixel in un’immagine, magari, con le future tecnologie, potremmo essere in grado di utilizzare questa tecnica per rilevare la vita multicellulare.

Non è quindi immediato trarre conclusioni sulla quantità di biomassa prodotta dalla radiazione PAR su esopianeti, né capire se ci possa essere vita su di essi. Ma ogni piccolo passo in avanti riempie un piccolo tassello nel grande quadro della ricerca della vita. E chissà che un giorno, in qualsiasi modo sia, possiamo venire a sapere che non siamo soli nell’universo.

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